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Intervista di Michele Pisani @riproduzione riservata
Altro giro, altra corsa. Ennesimo appuntamento con l’amarcord targato Avellino. La macchina del tempo non conosce soste, questa volta ci ‘fermiamo’ nel 1975. Due stagione dopo la storica promozione in cadetteria. Quei ragazzi, e non solo quelli, sono sempre nei cuori dei tifosi avellinesi. La promozione fu un’impresa che ha dischiuso le porte del paradiso. Lo abbiamo detto, scritto e non ci stanchiamo di ripeterlo. Non ci sarebbe stata mai la serie A di Reali, Cattaneo, Di Somma e dei fratelli Piga se, prima, non avessimo avuto la fortuna di vedere giocare ad Avellino gente del calibro di Fraccapani, Zoff, Piaser, Nobili e Pantani ma anche di Facco, Musiello e Schicchi. Non indugiamo troppo, lo avrete capito che il prossimo contatto è di quel periodo, negli anni precedenti la storica vittoria che catapultò i Lupi in massima serie. Sono passati trentotto anni ma Raffaele Schicchi non ha dimenticato un solo attimo di quella storica annata. I ricordi sono intatti e non vede l’ora di parlarci di quell’avventura in biancoverde. Il numero 3 ha giocato sessantasette gare in due stagione, compresa quella che anticipò lo storico successo. L’anno successivo, ce lo racconterà lui stesso si trasferì a Parma. Poi un serio infortunio che gli stravolse la carriera, smise di giocare nel 1979. Classe 1947, nasce terzino destro ma ad Avellino si adatta a giocare sull’altra fascia. Alto 1.76 per 70 chilogrammi, l’Avellino lo prende in prestito dalla Lucchese. “Pensa che manco ci volevo venire ad Avellino. Non intendevo trasferirmi in Irpinia anche se Giammarinaro mi confidò che erano anni che mi seguiva. Il calcio di allora era diverso, completamente. Eri un dipendente di una società ed eri sempre l’ultimo a sapere di un trasferimento. Dovevi accettare tutto quello che ti proponeva la società di appartenenza. A distanza di anni e con il senno di poi, posso dire che sono stato benissimo e credo di aver vissuto due anni indimenticabili”. Perché andò via? “Me lo chiedo ancora, fu un errore imperdonabile. Devi sapere che quell’anno fui uno dei migliori terzini. Forte di questo fatto andai da Sibilia e gli chiesi un aumento del contratto. Avevo un biennale e mi piaceva stare ad Avellino. Prendevo tredici milioni netti a stagione gliene chiesi due in più. La sua risposta? Mi vendette al Parma in C. In Emilia guadagnai trenta milioni a stagione ma mi infortunai e alla fine smisi e prima del tempo. Feci un errore, avrei preferito restare in Irpinia”. Tutto per soli due milioni ? “Si, proprio cosi. Il presidente si arrabbiò, non volle darmi l’aumento e addirittura mi mando via. Peccato, eravamo un buon gruppo e l’anno dopo i miei compagni andarono in A, ho un grosso rimpianto. Magari con me in difesa non avrebbero vinto, chi lo sa, ma sta il fatto che commisi un grosso errore”. Il calcio di tanti anni fa era diverso, perchè? “Intanto io giocavo perché ero bravo, i mie genitori non hanno mai pregato nessuno. Oggi è diverso, hanno i manager già a quattordici anni. Con la regalo dei giovani non si favorisce il calcio e nemmeno loro. Giocano solo l’anno che sono indispensabili e poi spariscono. I genitori sono pronti a sborsare fior di quattrini pur di vedere giocare i propri figli. Ho fatto l’allenatore per alcuni anni, poi l’osservatore e non nascondo che nutro la volontà di smettere, questo calcio non mi entusiasma più come una volta”. Cosa ricorda di quella esperienza. “Tutto, nei minimi dettagli. Mi fa piacere che a distanza di anni anche voi vi ricordiate di me, vorrà dire che ho lasciato un buon ricordo. Mi vengono in mente sempre Pinotti, Gritti e Lombardi. Peccato che non ci siano più, una perdita incolmabile. Con Adriano dividevo la stanza quando andavamo in trasferta. La linea difensiva era formata da Onofri a destra, centrali Facco e Reali ed io a sinistra. Musiello in quell’anno segnò diciotto reti e andò alla Roma. Gli allenatori che ho avuto era eccezionali. Prima Tony Giammarinaro poi il grande Corrado Viciani che per me fu un grande maestro”. Qualche chicca? “Beh ne avrei tante. Ricordo che una volta mi toccò marcare Francesco Chimenti, il papà di Antonio il portiere che giocò nella Juventus e fratello di Vito che è stato anche lui ad Avellino. Francesco era una attaccante forte fisicamente, uno che non si faceva menare anzi se capitava anche le dava. Lui giocava nella Sambenedettese e venne con la sua squadra al Partenio. Fu un duello incredibile, mi fece capire che io dovevo starmene buono. Io, invece, che non sarebbe mai passato. Alla fine vinsi io, con grande soddisfazione”. Il Partenio, la sua legge. Cosa sa dirmi. “Non ce n’era per nessuno. Prima non c’era la tribuna e l’altra curva. Gli ospiti capivano subito dove erano capitati e si adeguavano in tutti i sensi, non farmi dire altro”. I tifosi irpini, cosa avevano in più rispetto agli altri ? “Ero stato ad Ascoli, sapevo del calore dei tifosi ma ad Avellino era tutta un’altra storia. Quando scendevi per strada tutti ti riconoscevano. Spesso dovevo andare allo stadio alla chetichella sennò erano guai. Mi invitavano a mangiare a casa loro, anzi mi obbligavano. Io a dire che dovevo andare all’allenamento e loro ad insistere. Un cuore, una passione, un affetto che non ho più ritrovato. A Parma manco ti riconoscevano per strada, lì c’era solo la nebbia…”. Siamo in chiusura, ci dobbiamo salutare. E’ stato un vero piacere parlare con lei. “Il piacere è stato tutto mio, mi abbracci i tifosi, ad Avellino sono ritornato qualche anno fa ed è stata una gioia indescrivibile. Ci tornerei volentieri. Forza Avellino, lo sai che nella mia stanza ho la maglia numero 3 in un quadro? la guardo sempre e penso a quel periodo che è stato bellissimo”. Ecco Raffale Schicchi, un uomo che non dimenticherà mai di aver indossato la maglia biancoverde, come noi non dimenticheremo mai quanto lui abbia dato all’Avellino. Avanti con un altro, sotto a chi tocca. Non perdeteci di vista, potreste pentirvene.
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