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Servizio di Valerio Lauri ©riproduzione riservata
La vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare. Jovanotti lo scrive, il Milan lo pensa, ma soprattutto lo mette in pratica. Al Ferraris va in scena un copione infrasettimanale che di impronosticabile ha ben poco. Il Genoa, come succede ormai negli ultimi anni, si prende la testa del Diavolo nell’inferno di Marassi, tra gol estemporanei ed espulsioni. Come una tempesta estiva che costringe tutti ad abbandonare la spiaggia anzitempo, Juric e il suo Grifone spengono il sogno di ritrovarsi primi in classifica in un insipido martedì di campionato. I temporali estivi, però, hanno la funzione meteo-terapeutica di far risplendere il sole più di prima e, allora, può darsi che anche una sconfitta possa giovare ai giovani, nel processo ordinario di maturazione.
Certo, il risultato non è di quelli che fanno piacere: un 3-0 tanto sonoro quanto bugiardo, per quanto visto in campo per almeno 75 minuti. Non è stata la gara che Montella aveva preparato, senza ombra di dubbio. D’altronde, la coperta è corta e lo si è visto quando il tecnico napoletano ha dovuto attuare una sorta di turn-over, inserendo Poli terzino destro e il samurai arrugginito Honda. Decisione piuttosto sciagurata, perchè il centrocampista, che già fatica ad esprimersi con la maglia rossonera negli spazi che gli sono congeniali, ha dimostrato di non rappresentare un’alternativa valida ad Abate (!) sulla banda difensiva destra. Forse, proprio le fasce sono il settore che soffre la mancanza di alternative, dopo l’infortunio del giovane Calabria e stante la duttilità di De Sciglio, anche lui in serata non esaltante. Proprio dal lato di Poli e Honda è arrivato il vantaggio genoano: il giapponese ha avuto un’amnesia marchiana, tenendo in gioco Ninkovic, marcatore insospettabile dopo soli 63 minuti in campo racimolati in campionato.
La sensazione che non sarebbe stata una gara semplice prende corpo, quando si tratta di snaturare il canovaccio che ha costruito 16 punti nelle ultime 6 gare e cioè un primo tempo al cloroformio e una ripresa coi fuochi d’artificio. Per forza di cose, i rossoneri hanno dovuto attaccare la seconda migliore difesa del campionato (dopo la Juve), che si è trincerata tutta dietro la palla, come tradizione italica vuole. Da queste difficoltà nascono, ad esempio, una botta di Romagnoli che l’effetto si trascina fuori di un soffio e il coast to coast solitario di Bonaventura, che si spegne sul più bello e cioè quando si tratta di infilare le mani di Perin. Solo nel finale di prima frazione, con Montella che ordina un insolito 4-4-2, arriva un’azione di squadra degna di nota, col cross dalla destra che Bacca accomoda per Niang, frettoloso nel non lasciare scendere abbastanza il pallone, prima di esplodere il tiro.
La ripresa è solo il prolungamento naturale del post-vantaggio rossoblu. Bonaventura dimostra di essere il più attivo dei suoi, Bacca di essere il più pericoloso e solo un attento Perin gli nega la rete, immolandosi a rischio e pericolo della sua incolumità fisica. Poi Banti sorvola su una ginocchiata tanto inutile quanto ingenua di Veloso sulla schiena di Locatelli, quando il baby rossonero era in area: poteva starci il penalty. Quando sembra che l’inerzia della gara porti ad un fisiologico pareggio milanista, arriva la follia che non t’aspetti. Dopo una copertura svogliata di Poli, Paletta lascia partire l’embolo scriteriato e, nonostante fosse in epocale vantaggio su Rigoni, lo falcia a mo’ di mietitrebbia senza giustificazioni. Banti è praticamente costretto ad espellere il difensore, tra le proteste (stavolta motivate) di tutto il Ferraris, ansioso di vedere un’espulsione (come quella di Romagnoli l’anno scorso). Nonostante l’inferiorità numerica e lo svantaggio nel tabellino, il Milan ci mette carattere e si getta alla ricerca forsennata del pari. Come se non bastassero i disastri difensivi, Poli decide di sprecare anche i pochi spazi che il Genoa lascia. Come quando sul geniale assist visionario di Bonaventura, decide di regalare il pallone alla Sud del Ferraris, con un piattone che fa capire che – nemmeno – il gol è il suo mestiere (e allora è lecito chiedersi quale sia).
E allora, come nel più naturale degli epiloghi, arriva pure il suicidio. Lo firma Kucka che in un impeto di generosità difensiva, traduce in rete un contropiede del fresco Lazovic, mandato in campo al momento giusto dal sogghignante Juric. E’ il minuto 80 e la gara è bella che finita, con la sfortuna che ha deciso di farsi viva tutta insieme e – si spera – abbia esaurito tutto il debito accumulato nelle 6 giornate di striscia positiva. La mazzata finale, però, è il 3-0 a firma di Pavoletti, che si fa beffe di un Romagnoli ormai con la testa sotto la doccia e si prende la terza gioia personale del campionato.
Che questo Milan non fosse ancora pronto per primeggiare era lapalissiano e che – come ha candidamente ammesso Bonaventura – manca ancora qualcosa per mirare in alto è evidente. Il Genoa ha badato più a non prenderle dopo il vantaggio, ma i rossoneri hanno creato poco. L’ingresso di Suso, nella ripresa, ha chiarito che questo Milan non può prescindere dall’imprevedibilità e dalla qualità dello spagnolo. Esattamente come non può fare a meno della fisicità di Niang, seppure con tutti i suoi limiti realizzativi. La concretezza è sotto la lente anche quando si parla di Carlos Bacca, che, se escludiamo l’esterno deviato in rete da Dainelli, non timbra il cartellino da Milan – Sassuolo. Probabilmente, la scelta migliore, invece di Luiz Adriano, sarebbe stata quella di inserire Lapadula, che ha dimostrato di avere la grinta e la cattiveria che serve a questo Milan per superare un ulteriore gradino. Ci sarà tempo per rifarsi, a cominciare dalle prossime cinque gare, che propongono squadre da non sottovalutare, ma di bassa classifica come Pescara, Palermo, Empoli e Crotone. Nel mezzo di questi impegni, c’è il derby con l’Inter. La sensazione è che, dopo queste tappe, sapremo di più sulle speranze del sogno rossonero.
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