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Nel calcio forse la partita perfetta non esiste. Perché, penetrando nei meandri delle tattiche, delle strategie e delle interpretazioni dinamiche che ne seguono in campo, qualche errore lo si scoverà sempre. Nei singoli se non nell’intero reparto. Il Napoli che ha asfaltato la Roma, però, al concetto di perfezione questo pomeriggio si è quantomeno avvicinato. E tanto. E così l’exploit azzurro lo si può spiegare sotto almeno due angolazioni. La prima, di ordine tattico. Perchè, intanto, la squadra di Benitez riesce come suo solito a proporre organizzazione, spettacolo ed impeto contro avversari corti, non catenacciari e che abbiano il proprio baricentro non mortificato negli ultimi 20 metri della loro zona difensiva. E la Roma, nonostante abbia dispensato le proprie fiammate col contagocce, e in maggior numero nella ripresa, ha tradito leggerezza, fiato corto ed improvvisazione in retroguardia. Salvandosi da un passivo più mortificante che, in realtà, non avrebbe demeritato per quello che il Napoli è stato capace di sprecare a volte banalmente. La seconda ragione che spiega la festa azzurra è di ordine motivazionale. Il Napoli ammirato oggi è come se avesse empaticamente recepito la rabbia sportiva accumulata per mesi dai tifosi e le attese di una intera città per questa partita. Insomma, una complicità fertile che ha portato ad un esito quasi inevitabile. Poi, certo, a soccorrere la squadra di Benitez è anche una condizione atletica che sembra vivere una fase di grazia. E’ dalla gara col Verona, infatti, che il Napoli dà l’impressione di correre più degli altri e di gestire la propria autorità in campo per più di un tempo. E si sa, la freschezza fisica quando è ottimale consente di alimentare le virtù tecniche di un collettivo. Insomma, la Roma ha fatto poco o nulla per arginare lo strapotere azzurro. Forse stupita e impreparata di fronte alla cattiveria di un avversario prepotente nei duelli individuali, nei recuperi, nelle ripartenze e sulle seconde palle. In una sfida così sentita, e a senso unico, non poteva non esaltarsi Lorenzo Insigne, il simbolo della napoletanità calcistica. Numeri circensi e forma smagliante: contro i giallorossi è stato davvero maestoso. Ma nell’orchestra Napoli anche Koulibaly è oramai una piacevole realtà, così come è un cardiotonico ammirare l’orgoglio di Gargano (vero mandante del raddoppio di Callejon prima ancora dell’assist di Higuain) e la disciplina tattica di David Lopez, criticato ad occhi chiusi e troppo frettolosamente. Il solo Albiol persevera in qualche errore di troppo, fortunatamente mai decisivo quest’oggi. In buona sostanza è il Napoli “rafaelita” come ce lo siamo sempre immaginati. E che, se interpretasse le gare anche con le più piccole esprimendo almeno il 50% di quanto proposto oggi a Fuorigrotta, la terza piazza forse la blinderebbe già in Primavera. Ma il pomeriggio del San Paolo è stata anche l’occasione per unire idealmente le storie di Ciro Esposito ed Antonio Sibilia. Perchè, al netto di uno striscione minaccioso (e censurabile) nei confronti dei tifosi romanisti, l’omaggio della Curva B per l’ex patron dell’Avellino dei miracoli, storia ed essenza del club biancoverde, è stato semplicemente commovente (“a te che amavi il vero calcio come noi”). Quel calcio che amava anche Ciro a cui, comunque, Napoli ed il Napoli hanno regalato oggi il giusto tributo. Perchè, in spregio alla cultura della denigrazione che troppo spesso mortifica questa città, l’educazione napoletana ha risposto ancora una volta presente. Noi non avevamo dubbi in merito. Le false certezze, semmai, le lasciamo ad altri.
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