Views: 1
Si sapeva fin dall’inizio. Non sarebbe stato semplice scardinare cinque anni di macchie dalla maglia rossonera. Eppure gli impedimenti al decollo del nuovo stormo milanista, con a capo l’aeroplanino Montella presenta problematiche tutt’altro che banali. No, non è questa una disamina sulle difficoltà di Bonucci, tema inflazionato ormai. Ogni rivoluzione che si rispetti ha sì bisogno dei capi giusti, ma non è certo una fascia a darne l’onore (e l’onere). Quel che è certo è che le rivoluzioni segnano un’epoca, presentano una linea netta di demarcazione dal passato, impiegano tempo ad elargire insegnamenti storici e, non sempre, portano a benefici. Può essere questo il caso del Milan?
OMBRE CINESI – Certo che può esserlo. Un cambio di proprietà non è un banale passaggio di testimone, piuttosto l’approdo ad un nuovo capitolo, che non è detto si presenti alla stregua di quelli precedenti. Le rivoluzioni hanno bisogno di pazienza, temporeggiamenti e scelte oculate. Beh, a ben guardare, il mercato estivo di Fassone e Mirabelli non ha avuto questo fil rouge. Dopo una prima fase in cui, gli arrivi di Musacchio, Rodriguez, Kessiè, Andrè Silva e Conti hanno fatto urlare al tumulto calcistico, c’è stato un piccolo rallentamento. Ecco, quello forse è stato l’attimo (s)fuggente dell’estate milanista. Il momento esatto in cui la rivoluzione si è piegata al compromesso. Dapprima quello con Raiola, con il rinnovo di Donnarumma, che è stata una conquista dispendiosa, costata 6 milioni di ingaggio (+1 al fratello Antonio). Poi il compromesso con Lotito, che ha incrinato una fluidità di mercato, in favore dell’acquisto del metronomo Biglia. Infine, l’approdo di Bonucci ha sparigliato le carte, non tanto per l’affare economico (se pesato con l’addio di De Sciglio), quanto per la striscia di stoffa che è stata posata sul braccio dell’ex juventino, forse con troppa fretta. Il quadro è stato completato con l’arrivo di Calhanoglu, dotato ma poco funzionale agli schemi di Montella, Borini, esterno tuttofare senza infamia e senza lode e, infine, Kalinic, centravanti sì ma di ripiego.
VASO CINESE – Visto da questa prospettiva, il Milan appare esattamente come il recipiente asiatico ben decorato, ma con un contenuto tutto da decifrare. Lazio, Sampdoria e Roma (rigorosamente in ordine) lo hanno scoperchiato, in maniere differenti. I biancocelesti sbolognarono la questione modulo: dal poker incassato all’Olimpico, Montella si è sentito in dovere di catapultare il suo gruppo in un 3-5-2 mai veramente testato prima. La pressione mediatica, le difficoltà di capitan Bonucci e gli equilibri instabili lo hanno suggerito. Eppure a Genova, la metodologia tattica della difesa a 3 è ripiombata nell’oblio. Forse, delle tre, è stata l’unica influenzata da un elemento del passato, ovvero Cristian Zapata. La pessima prestazione del colombiano, però, ha mascherato altri problemi. Le difficoltà ad arrivare in porta, ad esempio, e soprattutto quelle a farlo con una manovra veloce. Inaridite le fonti principali di gioco, pochi sbocchi per Kalinic e soci. Al netto delle angherie difensive, è questo il nodo asfissiante per Montella. Seppure il secondo tempo con la Roma abbia regalato speranze, peraltro poi rivelatesi illusorie, il coltello giallorosso è entrato nel burro di equilibri tattici precari.
LOTTA PER LA LIBERTA’ – “Il rivoluzionario che ha successo è uno statista, quello che non ha successo un criminale”. Lo scriveva Erich Fromm nel suo “Fuga dalla libertà”, analizzando in maniera critica ed illuminata il paradosso che rende l’uomo tanto desideroso di libertà, disposto a combattere per essa, quanto tendente alla privazione di essa, quasi ne risenta. A Montella, volente o nolente, è stata affidata la rivoluzione, col peso che ne comporta in base alla sua riuscita (o meno). L’adattamento di alcuni singoli al nuovo schema suggerisce alcune riflessioni. Suso e Bonaventura faticano ad integrarsi ad esso, il loro apporto è praticamente nullo rispetto all’anno scorso. La questione nasce dallo snaturare le loro attitudini, che li limita fortemente. Eppure non sono i soli. Gli stessi Musacchio e Romagnoli (e anche Bonucci, ma non ditelo ai giornali) appaiono spaesati e lenti nelle chiusure. D’altronde, la difesa a tre presuppone una certa cooperazione tra i reparti che, soprattutto con Roma e Lazio, è stata messa fortemente in discussione. Troppo lenta la fase di transizione tra difesa e centrocampo, poco valorizzate le individualità nello sviluppo del gioco. Insomma, in termini spiccioli, le forze a disposizione non vengono sfruttate nella maniera giusta. Che è sinonimo di mancata realizzazione della libertà positiva dell’uomo, ovvero la valorizzazione dell’individualità.
Il derby è all’orizzonte. A renderlo ancora poco nitido, c’è la foschia della sosta per le nazionali, un tempo tecnico di preparazione da sfruttare. Una vittoria nella stracittadina varrebbe doppio: un innesto di fiducia non indifferente e il dimezzamento del ritardo dai cugini, avversari nella rincorsa al vitale posto Champions. Per poi affrontare con più tranquillità il mini-ciclo abbordabile (AEK, Genoa, Chievo) e il test finale d’ottobre con la Juve. Ottobre potrebbe essere il mese giusto per dare corpo alla rivoluzione, dunque. D’altronde, anche la storia lo suggerisce.
Lascia un commento