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La vera essenza di uno sport vive nelle stranezze, nelle difficoltà, meglio ancora, nelle condizioni più assurde che il contesto offre per poterlo praticare. Nel calcio, quest’essenza la si può cogliere nei campi sproporzionati con le porte fatte usando un paio di maglie, nel meltin’ pot tra età e genere di sesso all’interno di una partitella: bambini e adulti insieme, maschi e femmine che corrono dietro a un pallone calpestando una porzione di asfalto. Man mano che si sale di livello, il business comincia a inquinare tutto, come un fiume che deve attraversare una metropoli: parte limpido dalla foce, arriva esausto e putrido a valle. Lo stesso percorso che, in Italia, il pallone compie dalla categoria Scuola Calcio e Pulcini alla Serie A.
Ma un posto al mondo dove il calcio è ancora vissuto unicamente nella sua essenza c’è: ed è la Groenlandia. Paradossalmente, non è ancora stata riconosciuta dalla Fifa come membro avente diritto a partecipare alle competizioni internazionali. Una beffa da cui sembra impossibile liberarsi, perché in tutta l’isola – la più grande al mondo se si considera l’Australia una «massa conti-nentale» – non esiste un solo campo in erba naturale. Un vero e proprio sbarramento per le compagini nazionali, secondo la federazione internazionale che regola il calcio, nonostante giocare su manti sin¬te¬tici – almeno per le squa¬dre di club – sia ormai all’ordine del giorno nelle più alte sfere cal¬ci¬sti¬che di tutto il mondo, Serie A com¬presa. Quindi i casi sono due: o la Fifa si rav¬vede, o a Nuuk – capi¬tale della Groen¬lan¬dia – dovrà sor¬gere una costo¬sis¬sima strut¬tura in grado di chiu¬dersi e per¬met¬tere la cre¬scita di un (simil) prato facendo leva sull’effetto serra. Non pro¬prio il primo dei pen¬sieri del par¬la¬mento auto¬nomo, né della Dani¬marca sovrana e della sua regina Mar¬ghe¬rita II. «Sogniamo tutti un prato vero, uno sta¬dio che possa ospi¬tare final¬mente le par¬tite della nostra nazio¬nale, quelle che pos¬sono valere alla qua¬li¬fi¬ca¬zione di un mon¬diale o di un tor¬neo con¬ti¬nen¬tale». Il desi¬de¬rio più espresso dagli spor¬tivi groen¬lan¬desi è rias¬sunto da John Kreu¬tz¬mann, 42 anni, vero deus ex machina del cal¬cio dei ghiacci. Ex por¬tiere della sele¬zione bian¬co¬rossa, da cui si è da poco riti¬rato, ora aiuta la pro¬pria nazio¬nale facendo di tutto… «Anche il porta-borracce, se serve, com’è stato negli ultimi Island Games nelle Isole Ber¬muda», ha detto John, ricor¬dando la felice ed eso¬tica tra¬sferta dell’anno scorso, in una com¬pe-ti¬zione in cui par¬te¬ci¬pano com¬pa¬gini iso¬lane che si agghin¬dano per l’occasione a nazio¬nali uffi¬ciali come Frøya o le Fal¬kland. In que¬sto caso la Groen¬lan¬dia è riu¬scita a cogliere il miglior risul¬tato della sua sto¬ria clas¬si¬fi¬can¬dosi seconda… «Ma ora pen¬siamo al nostro cam¬pio¬nato – chiude John –. Nono-stante quello che si possa pen¬sare, qui c’è grande riva¬lità tra le squa¬dre par¬te-ci¬panti». Otto in tutto (anche se le squa¬dre sperse per il ter¬ri¬to¬rio sono cin-quanta), divise in due gironi: il cam¬pio¬nato è ini¬ziato nei pri¬mis¬simi giorni d’agosto e durerà poco meno di due mesi: «C’è da fare in fretta – pro¬se¬gue Kreu¬tz¬mann – prima che il ghiac¬cio torni ad essere padrone della nostra terra». O meglio, padrone del restante 17% della «Terra Verde», la parte costiera, popo¬lata da poco meno di 57mila abi¬tanti, visto che l’entroterra resta peren¬ne¬mente con¬ge¬lato e disa¬bi¬tato. Anche se que¬sto non signi¬fica che in Groen¬lan¬dia si guardi in fac¬cia al rigore delle sta¬gioni per pren¬dere a calci un pal¬lone: ci si imbot¬ti¬sce di maglie ter¬mi¬che e piu¬mini e si com¬batte, coi pol-pacci sotto sforzo, nel sub¬strato di neve creando inso¬liti pol¬ve¬roni bian¬chi nelle pochis¬sime ore diurne che la sta¬gione fredda offre.
Ma il cam¬pio¬nato uffi¬ciale si disputa d’estate, con¬si¬de¬rata «calda», nelle raris-sime volte in cui la mas¬sima arriva a toc¬care i 14–15 gradi. Si gioca in cam-petti com¬ple¬ta¬mente alla¬gati. Vere e pro¬prie paludi impro¬dut¬tive dal colore gri¬gio, per via del ter¬reno argil¬loso e sab¬bioso. Le scarpe chio¬date ven¬gono usate per puro spi¬rito di emu¬la¬zione: a che ser¬vono, d’altra parte, i tac¬chetti su que¬ste super¬fici? Un po’ di tempo fa, l’ex cam¬pione dell’Arsenal Robert Pirès, si pre¬sentò da que¬ste parti con una sele¬zione di vec¬chie glo¬rie fran¬cesi. Che con¬tro la nazio¬nale dell’isola per¬sero 10–0, total¬mente spae¬sate su un ter-reno inconcepibile.
I bian¬co¬ce¬le¬sti del Bol¬d¬klub¬ben 1967 di Nuuk, sono una delle «due Juven¬tus» di Groen¬lan¬dia per titoli vinti: dieci, in tutto. Stesso bot¬tino dei rivali del Nagdlunguaq-48. Al B-67, Kreu¬tz¬mann è una vera e pro¬pria isti¬tu¬zione: «Sono il capi¬tano sto¬rico di que¬sta squa¬dra. Che amo e in cui ho occu¬pato ogni tipo di ruolo, in campo, non solo quello del por¬tiere». Un cal¬cio ruspante, da gran baraonda ma, nono¬stante tutto, sport nazio¬nale di un’isola che fisi¬ca¬mente viene col¬lo¬cata in Ame¬rica, ma poli¬ti¬ca¬mente è sor¬retta (anche eco¬no¬mi¬ca-mente) dalla Dani¬marca. Non tutti hanno ottimi rap¬porti con Cope¬n¬ha¬gen. John, che nella vita è impie¬gato nell’amministrazione comu¬nale di Ser¬mer-sooq, la butta sulla diplo¬ma¬zia e sul ruolo di aggre¬ga¬zione del cal¬cio: «Io sono Inuq (una delle frange della gente eschi¬mese), popolo che per la stra¬grande mag¬gio¬ranza rap¬pre¬senta il mio paese. Ma la popo¬la¬zione è mesco¬lata e con-vive benis¬simo coi danesi che negli anni si sono sta¬bi¬liti qui. Non ci sen¬tiamo né euro¬pei né ame¬ri¬cani: sem¬pli¬ce¬mente groen¬lan¬desi, il nostro è un mondo a parte, di cui siamo pro¬fon¬da¬mente inna¬mo¬rati». Le altre alter¬na¬tive lavo¬ra-tive a quella di John, sono la pesca e la cac¬cia alla foca, atti¬vità che, come ben noto, costi¬tui¬scono il sosten¬ta¬mento del paese.
Jesper Grøn¬k¬jaer, ex gio¬ca¬tore della Pre¬mier Lea¬gue a cavallo tra ’90 e gli anni 2000, è l’esempio che tutti i ragazzi inse¬guono: par¬tito dalla terra del ghiac¬cio, Jesper è arri¬vato ad essere un pila¬stro di squa¬dre come Ajax, Chel-sea, Atle¬tico Madrid e Stoc¬carda; anche se – per ovvie ragioni di car¬riera – rap¬pre¬sentò uffi¬cial¬mente la nazio¬nale danese. Attual¬mente l’idolo di turno è Niklas Kreu¬tz¬mann, 32enne difen¬sore golea¬dor cugino di John, ma i veri cam¬pioni, quelli che fanno bril¬lare gli occhi, si vedono sola¬mente in tele¬vi-sione: «Abbiamo seguito i mon¬diali con grande tra¬sporto – pro¬se¬gue John -. È natu¬rale che sia stato così. Per¬so¬nal¬mente ho tifato per la Ger¬ma¬nia: è stata la nazio¬nale che mi ha fatto mag¬gior¬mente diver¬tire e ha meri¬tato la vit¬to¬ria finale». La gioia che il popolo Inuq pro¬ve¬rebbe a vedere la pro¬pria nazio¬nale com¬pe¬tere final¬mente con le altre, non avrebbe prezzo: nes¬suna squa¬dra di ripiego per cui fare il tifo, solo il tra¬sporto incon¬di¬zio¬nato verso i pro¬pri colori. La stessa gioia che da novem¬bre a que¬sta parte ha ine¬briato Gibil¬terra dopo il rico¬no¬sci¬mento con¬ti¬nen¬tale da parte dell’Uefa. «Sogno un campo da cal¬cio in erba vera, sogno la mia nazio¬nale gio¬care con¬tro le nazio¬nali più forti del mondo: sap¬piamo che prima o poi que¬sto sogno, in qual¬che modo, diven¬terà realtà», ripete John come un man¬tra. In attesa che la Fifa si dia una mossa…
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